Logo
7 Ottobre 2015 Numero 37 Anno II

 

il rispetto per noi stessi

Alberto Burgio - IlManifesto.info - 27 settembre 2015

“Ne ha dette, ne dice giornalmente tante e tali che non ci si dovrebbe più far caso. Ma una delle ultime esternazioni del presidente del Consiglio urta i
nervi in modo particolare, sì che si stenta a dimenticarsene.
«I sindacati debbono capire che la musica è cambiata», ha sentenziato con rara eleganza a margine dello «scandalo» dell’assemblea dei custodi del Colosseo. Non sembra che la dichiarazione abbia suscitato reazioni, e questo è di per sé molto significativo. Eppure essa appare per diverse ragioni sintomatica, oltre che irricevibile.

In effetti la rozzezza dell’attacco non è una novità.
Come non lo è il fatto che il governo opti decisamente per la parte datoriale, degradando i lavoratori a fannulloni e i sindacati a gravame parassitario che si provvederà finalmente a ridimensionare. È una cifra di questo governo un thatcherismo plebeo che liscia il pelo agli umori più retrivi di cui trabocca la società scomposta dalla crisi. Sempre daccapo il «capo del governo» si ripropone come vendicatore delle buone ragioni, che guarda caso non sono mai quelle di chi lavora. E si rivolge, complice la grancassa mediatica, a una platea indistinta al cui cospetto agitare ogni volta il nuovo capro espiatorio.
Sin qui nulla di nuovo dunque. Nuova è invece, in parte, l’ennesima caduta espressiva. Un lessico che si fa sempre più greve, prossimo allo squadrismo verbale di un novello Farinacci. Così ci si esprime, forse, al Bar Sport quando si è alzato troppo il gomito. Se si guida il governo di una democrazia costituzionale non ci si dovrebbe lasciare andare al manganello.
«La musica è cambiata», «tiro dritto» e «me ne frego». Senza dimenticare i beneamati «gufi».
Quest’uomo fu qualche mese fa liquidato come un cafoncello dal direttore del più paludato quotidiano italiano. Quest’ultimo dovette poi prontamente sloggiare dal suo ufficio, a dimostrazione che il personaggio non è uno sprovveduto. Sin qui gli scontri decisivi li ha vinti, e non sarebbe superfluo capire sino in fondo perché. Ma la cafoneria resta tutta. E si accompagna alla scelta consapevole di selezionare un uditorio di facinorosi, di frustrati, di smaniosi di vincere con qualsiasi mezzo — magari vendendosi e svendendosi nelle aule parlamentari.
Secondo un’idea della società che celebra gli spiriti animali e ripudia i vincoli arcaici della giustizia, dell’equità, della solidarietà.
Di fatto il tono si fa sempre più arrogante, autoritario, ducesco. Gli altri debbono, lui decide. […] Evidentemente ci va bene essere governati da uno che – al netto delle sue scelte, sempre a favore di chi ha e può più degli altri – non sa aprir bocca senza minacciare insultare sfottere ridicolizzare. Ci va bene la tracotanza, ci piace la supponenza, ci seduce l’arroganza. Apprezziamo la violenza che scambiamo per forza e per autorevolezza. Dovremmo rifletterci un po’ su. Dovremmo fare più attenzione alle parole dette e ascoltate, avere maggiore rispetto per noi stessi. E chiederci finalmente che cosa siamo diventati e rischiamo di diventare seguitando di questo passo”.