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1 luglio 2014 Numero 4 Anno I

 

L'Italia vista dagli scrittori

Matteo Collura - Corriere della Sera - 28 giugno 2014

«La Repubblica, ahimè, sta molto male:/ ha già chiamato il prete al capezzale./ Or ch’è in punto di morte, al Padreterno/ l’anima affida e sol nel Papa spera./ E credi che se muore andrà all’inferno?/ Credo che se non muore andrà in galera». Con questo epigramma, Malaparte dimostrava di conoscere l’Italia, fotografandola in quel momento (1949) e lasciandone un somigliantissimo ritratto per gli anni a venire.

Ed è il caso, questo, degli scrittori impegnati civilmente: nel ritrarre il loro Paese e nel coglierne i difetti, essi si fanno veggenti. È come se la realtà finisse con l’adattarsi a quel che viene scritto. Per questo più delle analisi sociologiche e storiche, è la letteratura a spiegare un popolo, una nazione. Ognuno, a questo proposito, può pensare agli scrittori che più gli sembrano «profetici». Qui, a mo’ di esempio e per non farla lunga, si ricordano Napoleone Colajanni, che nel 1900 scrisse tutto quanto c’era da scrivere sulla mafia; Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che con Il Gattopardo seppe mostrare l’eterno trasformismo della politica italiana; Luciano Bianciardi, che nel 1962, con La vita agra, diede un ritratto di Milano che è quello di oggi. E si potrebbe continuare con Pasolini, Gadda e decine di altri. L’Italia, fin da quando era una «espressione geografica» è stata sempre vista dai suoi scrittori per quello che è, vale a dire come un organismo malato, causa della sua stessa malattia. «Pentita sempre, e non cangiata mai», scriveva Manzoni, nel lontano 1802, al suo amico Francesco Lomonaco; e si riferiva all’Italia.