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1 luglio 2014 Numero 4 Anno I

 

Italo americani - Dialetto perduto

Joseph Luzzi - La Repubblica - 30 giugno 2014

Giambattista Vico, filosofo italiano del XVIII secolo, credeva che a mano a mano che una civiltà progredisce perde contatto con le sue origini creative. Un antico guerriero non avrebbe mai dichiarato «sono furibondo», ma avrebbe utilizzato la metafora «mi ribolle il sangue». Il poeta Orazio nell’Antica Roma si spinse un po’ oltre: credeva infatti che quando le parole scompaiono si portano appresso i ricordi. Come le foreste cambiano fogliame ogni anno, così pure fanno le parole: nuove lingue «sbocciano e si sviluppano», ma soltanto dopo «la dipartita della vecchia progenie».

Crescendo, mi sono reso conto che la lingua dei miei genitori stava avvizzendo e morendo come le foglie d’autunno. Erano immigrati negli Stati Uniti dalla Calabria alla fine degli anni Cinquanta e hanno continuato a parlare il dialetto della loro umile regione del Meridione d’Italia. Ma la loro, ormai, era una lingua congelata nel tempo dall’esilio, piena di vocaboli che nella loro madrepatria non esistevano più. Dopo dieci anni in America, mio padre decise di comprarsi una bella automobile. In italiano un’automobile si dice «una macchina» e l’equivalente in dialetto calabrese è «‘na macchina». Ma nelle periferie pazze per le automobili dell’America postbellica, un immigrato come mio padre non poteva che rimettersi alla nazione che l’ospitava, così andò da un concessionario Chevy e chiese «‘nu carru». Il «‘nu» calabrese suona un po’ come «new», nuovo, e «carro» è proprio carro. In ogni caso, il concessionario sapeva che cosa volesse dire mio padre e gli vendette una Chevy Impala marrone del 1967. L’acquistò l’anno in cui nacqui io, il suo primogenito americano.