Logo
1° aprile 2015 Numero 24 Anno II

 

il cambiamento del lavoro

Nulla è immutabile, tutte le cose si trasformano per adattarsi all’evolversi della società. E anche il lavoro sta cambiando assieme a molti degli aspetti che lo hanno caratterizzato nel XX secolo.
Alessandro Giberti in un articolo apparso su Il Foglio il 23 Marzo scorso analizza i mutamenti che stanno avvenendo nella struttura e nell’organizzazione del lavoro definendola una “rivoluzione silenziosa” che segue sostanzialmente due direttrici primarie: il tempo e lo spazio.

Semplificando, il cambiamento sta interessando sia gli orari lavorativi e il tempo libero, sia i luoghi fisici e dunque l’ufficio.
Molti sono gli esempi citati, tra cui Microsoft che dopo aver abolito l’orario fisso ha eliminato anche l’obbligo di presenza, Netfix in cui il lavoratore prende tutte le vacanze che desidera quando e come vuole, idea ripresa anche alla Virgin in cui il fondatore sostiene che le persone devono essere incoraggiati a lavorare quando dove e come vogliono.
Insomma, molte grosse realtà imprenditoriali sembrano aver intuito che una maggiore flessibilità nella strutturazione del lavoro porterà l’individuo a lavorare meglio. Riflessione non del tutto nuova, ricorda Giberti, considerando che già Henry Ford aveva ridotto le giornate lavorative dei dipendenti da 6 a 5 e le ore settimanali a 40 (soluzione poi adottata da tutti).
Tuttavia, si legge nell’articolo, quando si discute di capitale e di lavoro nel XXI secolo, si parla di “24-hours society: nessuna distinzione tra work e non-work time; migrazione dalla settimana lavorativa standard a forme non standardizzate della stessa; turni a part-time; weekend lavorativi; lavoro a chiamata, eccetera”.
Sembra dunque che il capitale stesso stia riflettendo sempre più sull’individuo e sulla sua felicità, perché se l’essere umano non lo è, ne risente la sua creatività e dunque la sua produttività. Ad emergere è secondo Giberti, un “capitale dunque dal volto umano, che tenta di dare risposta ai bisogni di benessere ed equità”. Tuttavia, vi sono anche delle critiche alla 24-hours society, che fanno riferimento alla “precarizzazione universale del lavoro” e allo “svilimento della dignità del lavoratore”, che sembrerebbe non essere poi più così tanto fondamentale, visto che non gli si garantisce più una scrivania e non è più tenuto a comunicare i giorni di vacanza.
Giberti obietta però che, nonostante il capitale non sia un’entità misericordiosa, è però naturale che venga prodotta una riflessione al suo interno per apportare delle correzioni ai suoi problemi, in particolare quelli che riguardano l’individuo.
Nell’articolo viene citato il libro di Nikil Saval , in cui l’autore opera una ricostruzione cronologica dei luoghi di lavoro; a proposito di destrutturazione dei luoghi di lavoro, si scopre che già negli anni ’70 all’Ibm si sviluppò il “non territorial office”, ovvero “un open space non soltanto privo di muri e divisori ma anche privo anche di postazioni di lavoro permanenti”, ambiente che si rivelò un successo. Si cita inoltre il discorso di un’anonima signora in un bar a Milano, che a proposito della riorganizzazione di una sede racconta di aver proposto ai dipendenti di ridurre a 3-4 i giorni di lavoro fissi in ufficio (il resto da casa) e la fine delle postazioni fisse individuali; una soluzione ben accettata dai lavoratori, che però – afferma la signora – non hanno ancora tolto le foto dei bambini dalle proprie scrivanie.
Questo significa che è normale che vi siano delle resistenze al cambiamento (anche tra gli stessi lavoratori), ma, spiega Giberti , “che il capitale si ponga delle domande relative alla felicità e alla responsabilizzazione individuale del lavoratore”, seppur a fini utilitaristici, “non può mai essere un peccato mortale”. (Viviana Toia)